lunedì 30 settembre 2013

Storie di formazione. La mia prima migliore amica, ultima parte

Facciamola breve. D. ha passato gli ultimi sette anni (o otto, boh)a giocare a fare la fidanzatina in casa, lamentandosi della suocera e, verso la fine, a sbuffare sulla sua dolce metà. In questi anni universitari ci siamo riavvicinate, ci vediamo abbastanza spesso con lei e V. (V. e D. sono poi diventate Migliori Amiche anzi Sorelle, con frequenti e rumorose esternazioni d'affetto) e anche E. (A. no, si è innamorata due anni fa di un assicuratore ed è sparita - notiamo come fra l'altro sia lei ad avere la carriera più brillante (lavora in banca), risultato inversamente proporzionale al successo scolastico, come spesso accade). Lo scorso Febbraio D. si è lasciata col ragazzo (che lei non amava più, a suo dire) e da allora non fa che rimpiangerlo. Una cosa seria, c'è stata una depressione nel mezzo e dottori e uno psichiatra e delle pillole, e scenate isteriche e crisi di pianto e mutismi e insomma, tutte cose discutibili, ma una volta che esprimi la tua contrarietà, cosa ne ricavi?

In un tentativo di farle cambiare aria, o di ricorrere alla vecchia e gloriosa tecnica del "chiodo scaccia (e schiaccia) chiodo", le ho presentato i miei amici, forse anche per distrarla e non farmi più ripetere frasi come "ormai ho quasi venticinque anni, chi mi vorrà più?". Quel che non avevo considerato non era tanto la storiaccia di sesso (se volete il mio parere piuttosto squallido), ma che D. si sarebbe trovata giudicata anche da altre persone. E insomma, tutto questo lunghissimo discorso di tre post per chiudere con l'unica frase importante: MI Dà FASTIDIO. La critico ormai da tempo immemore, certe sue abitudini o modi di pensare mi fanno venire l'orticaria, non capisco perché si vesta da BOTTANA IMPERIALE per uscire la sera al baretto tamarro per bere una cosa io e lei, disprezzo il suo avere più di cento paia di scarpe (e nessuna che costi più di venti euro), mi urta il fatto che urli quando parla, non so se per abitudine o posa, mi imbarazza che giudichi "noi ragazze, che una volta che siamo fidanzate ci vedono solo in pigiamone" (non ho completini intimi sexy. E neanche camicie da notte o pigiami sexy. Li trovo ridicoli. E le mutande sintetiche mi fanno venire la candida solo a pensarci. Nessuno si è mai lamentato per questo, e, a ben pensarci, deve solo provarci), insomma, continuo a emozionarmi più per gli effetti speciali di un film fantasy che per l'ultimo acquisto da Yamamay. Non capisco perché non si dia una svegliata, odio la sua mentalità anni '50 (senza uomo, che donna sei) rivestita da atteggiamenti da femme fatale (ma è inutile che fingi di essere in Sex & the city se dentro sei una Pollyanna). Nonostante tutto questo e tanto altro, però, le voglio bene.

Mi dispiace per lei, mi arrabbio ma alla fine non riesco a non prendere le sue difese di fronte agli altri. Come quando uno critica i tuoi genitori: puoi aver parlato male di loro fino ad un istante prima, ma quando senti qualcun altro che lo fa, ti sembra improvvisamente ingiusto. Le voglio bene, non so se ormai è solo per abitudine, per tutte le volte che siamo state sveglie la notte a chiacchierare e a raccontarci i segreti, per quelle volte che, anche se mi superava di tutta la testa, chiamava me quando non sapeva che fare (come la telefonata in cui scoppiò a piangere: "IO NON CE LA FACCIO PIù"), per i giri in bicicletta del sabato pomeriggio, per le feste di compleanno fatte insieme (siamo nate a una settimana di distanza), per la sua completa fiducia in tutto quel che facevo, il suo credere (tuttora, ormai mi sa che è l'unica) che "un giorno entrerò in libreria e ci sarà il tuo nome su un romanzo nello scaffale dei bestseller", perché quando mi ero lasciata con quello che è a oggi "la mia storia più lunga" aveva organizzato a forza un week end via da tutto, a base di spritz, patatine e vecchie sane abitudini (film e nanna) per tirarmi su il morale, perché ha sempre un pensiero buono per tutti, perché non ce la fa ad essere stronza.

Insomma, chiamatela pure psicotica, ninfomane, pazza, depressa, fuori di testa, oca. Dite pure che è irritante, un po' scema, esagerata, malata di shopping, ossessivo/compulsiva, possessiva, gelosa, matta. Quello che volete, ma non davanti a me. Continuerò a criticarla, ma anche a difenderla. E soprattutto (e nonostante tutto), a volerle bene, e se ne parlate male di fronte a me, è come se faceste del male anche a me.

giovedì 26 settembre 2013

Storie di formazione. La mia prima migliore amica, parte 2 (divagazione)

A dirla così suona brutto e antipatico, tipo che io ero la snob radical chic con aspirazioni nerd che faceva il classico, e lei una deficiente solo perché aveva le tette e si metteva i vestiti attillati. Non è così, ovviamente. D. è sempre stata una persona molto dolce e molto insicura, con la tendenza ad omologarsi un po' a chi le stava intorno (come facciamo tutti, inutile negarlo). Forse se a 14 o 15 anni si fosse trovata circondata dalle stesse persone che frequentavo io, in un ambiente meno attento allo smalto che mettevi (ma molto di più alla musica che ascoltavi e alle idee che avevi - ecco, sto ricascando nel gioco della radical chic), forse ora avrebbe pensieri e abitudini diverse; di certo avrebbe un'altra storia alle spalle, e, forse, altre priorità. O forse no; d'altra parte non c'è motivo per credere che essere follemente innamorata di Legolas a 15 anni sia meglio che scegliere vestiti carini a poco prezzo e uscire con un ragazzo in carne ed ossa (o meglio, io lo credo, ma sono ovviamente di parte). E non è neppure vero che le grandi differenze spuntarono fuori solo alle superiori: mi ricordo che alle medie facevamo lunghissimi discorsi su tutto, e ovviamente anche sul matrimonio, se ci saremmo sposate o meno, con chi (!), e, cosa più importante, come sarebbe stato il nostro vestito. Dopo ore di tulle e sbuffi meringosi, di seta lucida e di avorio (D. e V. sembravano non riuscire a fermarsi), io avevo talebanamente sostenuto che se mai mi fossi sposata l'avrei fatto in jeans (bianchi, ché la tradizione è importante), e in comune. Insomma, già si vedeva che io ambivo a una vita da zitella con tanti gatti, mentre lei, loro, erano più per l'adolescenza da telefilm americano, con la degna conclusione di un matrimonio sontuoso. Altro esempio: alla nostra prof di italiano delle medie (che ho sempre amato, ricambiata, e amo tuttora) piaceva darci temi di fantasia. Uno di questi ci diceva di immaginare la nostra vita 15 anni dopo, o una cosa del genere. D. si vedeva fidanzata e con dei gatti, V. fidanzata con M.G. (il grande amore dei nostri anni verdi, e con verdi mi riferisco al colore del grembiule della classe della scuola materna), che avrebbe fatto il pilota di Formula1. E io? Io ero sola, mentre le mie amiche si sposavano, squattrinata (ma non vivevo più dai miei), e per mantenermi facevo la commessa, anche se poi decidevo di portare i miei misteriosi manoscritti (sottinteso: del grande romanzo del secolo) a un editore (sottinteso: che li avrebbe amati e pubblicati ed io entro breve sarei stata ricca e famosa).

Insomma, che ero una calvinista l'avete capito, andiamo avanti. Ci siamo perse di vista, come spesso accade, abbiamo diradato (direi fisiologicamente) le uscite. La cosa bella però è che non abbiamo mai perso del tutto i contatti, ci sentivamo, raramente ma ci sentivamo, e parlavamo ancora, anche se forse più superficialmente di prima. Poi, verso la fine delle superiori, un po' perché gli anni mi avevano regalato la frivolezza, un po' perché lei si stava allontanando da influenze nefaste, ricominciammo, lentamente, a riallacciare i rapporti, fino a vederci con frequenza settimanale o quasi negli ultimi anni di università. Non saremmo mai più state migliori amiche, ma non ne facevamo un dramma. L'amicizia è anche questo, sapere quando una persona diventa ormai troppo diversa da te, ma volerle bene comunque, rispettando le sue scelte.

sabato 21 settembre 2013

Storie di formazione. La mia prima migliore amica, parte 1

Conosco D. da moltissimi anni. Ci siamo incontrate a scuola, eravamo nella stessa sezione e siamo diventate amiche in fretta, durante le prime settimane di prima elementare. Ricordo anche come: avevo in tasca, o qualcuno (la maestra?) mi aveva dato una caramella che proprio non volevo (non sono mai stata tipo da caramelle) e, più per togliermela di torno che per spirito di generosità, l'avevo offerta a una bambina dall'aria timida ma simpatica, con la treccia lunga e gli occhi piccoli e scuri, che mi stava passando di fianco (in bagno?) in quel momento. Le persone si conosco nei modi più stupidi: e noi eravamo diventate amiche per via di una caramella ("Ciao, senti, la vuoi?" "Davvero?! Grazie, domani te ne porto una io!": non se lo ricordò mai, grazie a Dio, ma da quel pomeriggio cominciammo a parlarci e a trovarci simpatiche, e nel giro di poco tempo eravamo Migliori Amiche).

Eravamo abbastanza simili, allora (minute, magroline, con i capelli scuri, timide, educate e brave a scuola), e c'era una maestra (quella della caramella?) che confondeva sempre i nostri nomi, ma eravamo già a quei tempi molto diverse: lei con i capelli sempre lunghi e ben pettinati, io tagliati dal papà, corti e comodi; io più sicura nonostante le apparenze, lei molto meno, ma io non lo capivo, così come non capivo che eravamo diverse per i genitori e per come ci crescevano. Ci vedevamo tutti i giorni a scuola, sempre il sabato pomeriggio per fare i compiti e giocare, spesso anche la domenica o in altri momenti(ho passato più di un capodanno a casa sua, con i miei e i suoi che ci tenevano impegnate con giochi in scatola fino alla mezzanotte e a me si chiudevano gli occhi), fino alla quinta elementare (quando ormai lei aveva già i primi fidanzatini e io ero ancora una bambina, felice di stare con le mie amiche e i miei libri - nessuno capiva quanto amassi leggere, da bambina, nessuno della mia età almeno. Avere conosciuto poi persone che erano felici di starsene in casa con un libro per ore mi fece improvvisamente sentire meno sola, anche se, obiettivamente, sola non lo ero mai stata - solitaria sì, ma quella è un'altra storia).

Siamo rimaste amiche anche durante le medie: anche lì eravamo in classe insieme, anche lì la prof di italiano ci aveva identificato subito come "le amiche del cuore", ma ormai non ci confondevano più: alla fine della terza media lei mi superava di statura forse di tutta la testa, e portava già il reggiseno (con il patrimonio genetico di una nonna con l'ottava, era doveroso), mentre io ero sempre tra i tre/quattro più bassi della classe, sempre magra, sempre piatta, e sempre con lo sguardo da bambina (poi l'estate leggevo Guerra e Pace, ma, appunto, questa è un'altra storia). Era in classe con noi anche V., che io conoscevo da ancora prima di D., che per fortuna era (ed è) bassa come e più di me, altrimenti mi sarei sentita proprio una nana: passavamo i pomeriggi a casa dell'una o dell'altra, crescendo senza accorgercene, passando le ore a giocare e poi a parlare, parlare, parlare (a casa di V. poi ci facevano fare la merenda con grissini e nutella, che libidine). E. era amica di V., e poi c'era A., e l'insopportabile I., e D. con cui litigavamo ma poi ridevamo, ci dava pizzicotti sul sedere (e io gli tiravo i calci negli stinchi, se lo ricordano ancora tutti), ma questa è un'altra storia e poi le iniziali cominciano ad essere davvero troppe.

Poi, per fortuna forse, ci siamo allontanate. Ci siamo iscritte a scuole diverse, presto abbiamo cominciato a farci nuovi amici e, soprattutto, ad avere interessi diversi. C'è stato un momento, forse in seconda superiore, in cui io cominciavo ad andare in giro con i miei compagni di classe, a sentire i gruppetti di gente della scuola che suonavano (discutibilmente) in posti discutibili; ascoltavo il punk rock e i primi Muse (ma non ancora il metal), studiavo moltissimo ma con piacere, ed ero appena entrata nel tunnel del Signore degli Anelli. Un pomeriggio mi ero trovata con D., come ai vecchi tempi, e lei aveva i jeans elasticizzati e il toppettino che le lasciava la pancia scoperta, una delle prime paia di sandali con la zeppa, mille sciocchezze per la testa, e... non avevamo più argomenti in comune. Non sapevamo cosa dirci, ci trovavamo reciprocamente noiose (lei però è sempre stata troppo carina per dirmelo). Diradammo le uscite, fino a non vederci più o quasi.

lunedì 9 settembre 2013

Luis Sepùlveda, Il partigiano Johnny nella notte di Allende

E pensare che, se avessi aspettato un paio d'ore, o avessi letto prima il giornale, avrei avuto qualcosa di più delle Inutilità di cui scrivere.

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Luis Sepùlveda, Il partigiano Johnny nella notte di Allende. La Repubblica, 9 settembre 2013


Il giorno più nero della storia del Cile spuntò coperto di nuvole. La primavera alle porte, atterrita dall’orrore che si avvicinava, aveva deciso di negarci i primi tepori. Alle sei del mattino Salvador Allende, il Compagno Presidente, ricevette le prime informazioni sul golpe imminente e diede ordine alla scorta, al Gap, di lasciare la residenza di calle Tomás Moro per raggiungere il palazzo de La Moneda.
Un contingente del Gap – Gruppo di Amici Personali – rimase a garantire la sicurezza della residenza e il resto si mise in marcia armato di kalashnikov. Fra i Gap che uscirono insieme al Compagno Presidente c’erano tre ragazzi molto giovani: Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, studente; Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni, studente e dipendente del palazzo presidenziale e Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, studente e operaio in un’azienda agroalimentare. Tutti e tre erano militanti della Federación Juvenil Socialista. E oggi, a quarant’anni dal colpo di stato che ha messo fine al più bel sogno collettivo, voglio parlare di uno di loro, di Óscar, un ragazzo cileno pieno di coraggio e generosità.
Óscar era più giovane di me, ci separavano solo due anni, ma visto quanto era intenso il nostro impegno per la Rivoluzione cilena, visti la dedizione totale e il rigore con cui affrontavamo i mille compiti del Governo Popolare, quei due anni scarsi di differenza mi conferivano una certa anzianità. Anch’io avevo avuto l’onore — il più grande onore che mi sia stato concesso in vita — di far parte del GAP, ma dopo aver trascorso quattro mesi nella scorta del Compagno Presidente ero stato chiamato a maggiori responsabilità. Così, a ventidue anni, mi ero ritrovato supervisore di un’azienda agroalimentare a sud di Santiago. Là avevo conosciuto un giovane socialista che si chiamava Óscar Reinaldo Lagos Ríos e che combinava il suo lavoro di meccanico nell’azienda agroalimentare con gli studi in un istituto industriale e con la militanza socialista. Óscar amava il tornio e la fresatrice. Tra i suoi progetti c’era quello di diventare un buon tornitore, un operaio specializzato. Fin dal primo momento si trasformò nel mio braccio destro e più volte respingemmo insieme gli attacchi del gruppo fascista Patria y Libertad, che voleva assassinare i dirigenti sindacali e incendiare i nostri posti di lavoro.
Spesso Óscar portava a passeggio mio figlio Carlos Lenin, che cominciava allora a camminare, e ogni due o tre giorni prendeva in prestito un libro, un romanzo, una raccolta di poesie, qualche saggio sociopolitico. Un pomeriggio, mentre facevamo il nostro turno di guardia, lo vidi leggere e piangere senza nascondere le lacrime. Stava leggendo La sangre y la esperanza di uno scrittore cileno ormai dimenticato, Nicomedes Guzmán. All’improvviso chiuse il libro, si asciugò gli occhi ed esclamò: «Compagno, ora sì che ho capito perché facciamo la rivoluzione».
Óscar si era sempre distinto come lavoratore, per il senso dell’umorismo che traspariva dalle canzoni degli Iracundos che cantava mentre riparava i macchinari e per l’esemplare solidarietà (era sempre l’ultimo al momento di comprare gli alimenti che trattavamo e che la borghesia si accaparrava per far mancare i rifornimenti), ma si distingueva anche come militante, acuto nelle sue analisi e convincente grazie ad argomenti ancora più acuti. E poiché il GAP era formato dai militanti migliori, un giorno parlai di lui raccomandandolo e ricevetti l’ordine di addestrarlo. Così Óscar imparò a usare un’arma, a pulirla, ricevette i primi rudimenti di difesa personale e di procedure di sicurezza. Quando entrò a far parte del GAP, il più grande onore per un militante, festeggiammo a casa sua, con la sua famiglia umile e generosa. Poi ci perdemmo di vista perché i tanti compiti della Rivoluzione Cilena ci tenevano molto occupati e la giornata era sempre troppo breve, dormivamo poco, ma non perdevamo mai di vista l’importanza di quel che facevamo. Non avevamo diritto né alla stanchezza né allo scoramento. Stavamo costruendo un Paese giusto, fraterno, solidale, seguendo una via cilena, rispettando tutte le libertà e i diritti. E per di più avevamo un leader che ci dava un grande esempio con la sua statura morale.
Un giorno incontrai Óscar a El Cañaveral, una residenza di campagna sulle pendici della cordigliera delle Ande dove il Compagno Presidente andava a riposare. Insieme ad altri due GAP sorvegliava l’ala nord. Ci abbracciammo e quando gli chiesi il nome di battaglia — io ero e continuo a essere Iván per i GAP sopravvissuti — lui rispose: «“Johny”, è quello il mio nome di battaglia, Johny, ma non l’ho scelto io: me l’ha dato il dottor Allende un giorno che mi ha sentito cantare».
Quell’11 settembre 1973, poco prima delle sette di mattina, Salvador Allende e la sua scorta formata da tredici membri del GAP entrarono alla Moneda. Il golpe fascista era iniziato, truppe e carri armati accerchiarono il palazzo, riecheggiarono i primi spari tra difensori e golpisti, le forze aeree bombardarono le antenne delle radio finché ne rimase soltanto una, quella di radio Magallanes, grazie alla quale ascoltammo e avremmo ascoltato le ultime parole del compagno presidente, quel «metallo tranquillo della mia voce».
Con la Moneda assediata, Allende diede ordine di far uscire chiunque lo desiderasse, lui sarebbe rimasto a baluardo della Costituzione e della legalità democratica. In mezzo ai colpi d’arma da fuoco e ai proiettili esplosivi del-l’artiglieria, un pugno di poliziotti socialisti decise di restare, e anche i GAP dissero chiaramente che la guardia non si arrendeva né abbandonava il Compagno Presidente. Fra Allende, i poliziotti rimasti fedeli, il medico del presidente, il giornalista Augusto Olivares e i tredici GAP non erano più di ventidue, ma affrontarono migliaia di soldati golpisti.
Quando era quasi mezzogiorno, le forze aeree bombardarono la Moneda, le fiamme cominciarono a divampare nel palazzo ma il GAP non mollò. Rimane per sempre un’immagine di quel momento: il GAP Antonio Aguirre Vásquez, un patagone eroico, che spara dal balcone principale con la sua mitragliatrice calibro 30 finché le bombe non cancellano completamente la facciata della Moneda. Il simbolo della democrazia cilena, la cosiddetta casa di Toesca bruciava, Allende era morto e Óscar Lagos Ríos, Johny, era stato colpito da due pallottole, ma era ancora vivo. Alle due del pomeriggio, ormai senza più artiglieria, con le munizioni esaurite, i sopravvissuti di quel pugno dipoliziotti e uomini del GAP uscirono dalle macerie e furono immediatamente fatti salire su un camion militare con destinazione ignota. I poliziotti riuscirono a salvarsi la vita, passarono attraverso atroci torture ma sopravvissero. I tredici GAP scomparvero.
In Cile, tuttavia, la terra parla e così è stata scoperta una fossa comune clandestina in un campo militare abbandonato, Fuerte Arteaga, e in quella fossa c’erano più di quattrocento pezzi di ossa umane, alcuni lunghi meno di un centimetro, e quei pezzetti minuscoli hanno raccontato che i tredici GAP erano stati torturati, mutilati, assassinati dalla soldataglia in un’orgia di sangue, durata vari giorni, a cui avevano partecipato ufficiali e truppa del reggimento Tacna. I GAP erano stati sepolti nella caserma, ma quando alcuni testimoni avevano dichiarato di poter indicare il luogo dell’occultamento, i resti degli eroici combattenti della Moneda erano stati trasferiti a Fuerte Arteaga, gettati in una buca profonda dieci metri, fatti saltare in aria con la dinamite e infine coperti di terra.
È impossibile ridurre al silenzio la voce dei combattenti e le loro ossa minuscole hanno rivelato i loro nomi, hanno detto: «Io sono ciò che resta di Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, nome di battaglia Johny, GAP, assassinato il 13 settembre 1973». Una mattina del 2010, un corteo con in testa tre carri funebri è passato davanti al palazzo della Moneda. A scortarli c’erano uomini e donne di oltre sessant’anni che al braccio sinistro esibivano con orgoglio un nastro rosso con la sigla GAP. Scortavamo Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni e Óscar, quel Johny che aveva preso il fucile quando bisognava farlo.
nostri compagni oggi riposano nel mausoleo degli eroi, accanto alla tomba del Compagno Presidente. Il GAP non si arrende. Onore e gloria ai combattenti della Moneda. Viva i compagni!


(Traduzione di Ilide Carmignani)

Inutilità

Nel mondo dei blogger fighi le visite si contano a centinaia, in questo sono, per così dire, più... individuali. Uno di questi individui è arrivato fin qui digitando samantha chittolina escort london. Spiegatemi perché.

Ho un sacco di tempo libero, ultimamente ancora di più perché uno dei miei simpatici denti del giudizio ha deciso che stavo avendo troppa vita sociale, e mi ha obbligato a restare a casa gemendo e lamentandomi, e nutrendomi di verdura e frutta frullata. Nonostante tutto questo quantitativo quasi imbarazzante di ore libere, non sto facendo nulla, né scrivendo il romanzo della vita, né facendo cose utili (STOMMMALE!), né elaborando idee geniali. Vegeto tra ricaricare la pagina di Facebook e guardare svogliatamente bloglovin o (in ordine di importanza) il sito degli annunci di lavoro dell'università. In compenso è settembre, mi dicono sia tempo di migrare, io veramente sto bene dove sto, anche se immagino che il limbo dovrà finire prima o poi. Guardo scemenze, leggo cavolate, sfoglio già un po' incredula le foto della Croazia (ma davvero ero ancora in vacanza ignorante un mese fa?), scrivo mail che nessuno leggerà, mi faccio tormentare dal mio telefono, e intanto... attendo. E, colmo delle abiezioni, ascolto i One Direction. Mi fanno sentire gggiovane quando faccio le pulizie, imbarazzante ma vero.