venerdì 22 marzo 2013

Storia di una Canzone, per Radio Popolare!

Ci sono periodi in cui va tutto storto.
E ci sono giorni in cui si concentrano tante cose belle, che prese singolarmente non ci fai caso, poi ti giri a guardarle e comincia la tachicardia e il gonfiarsi dell'ego in modo spasmodico. In questa settimana per esempio c'è stato Il Mio Primo Vero Colloquio in cui non mi sembrava di avere niente da invidiare alle "rivali" appena uscite da Cattolica e IULM, Comunicazione e Robacosì.
Ma soprattutto, oggi ho avuto l'onore di essere contattata da Niccolò Vecchia per una trasmissione su Radio Popolare: ho balbettato in diretta, ho ridacchiato imbarazzata, e lui ha letto, benissimo, un mio racconto che avevo scritto tempo fa, quando ancora arrancavo sul capitolo delle fonti della tesi e mi sembrava che non avrei mai finito, e quando, soprattutto, mi sembrava di vedere tutto un po' grigio.

Per me Radio Popolare è sia mito che presenza quotidiana: è prima di tutto ottima informazione, ma è anche l'unica radio che ascoltano i miei. È il giornale radio che ti fa compagnia a colazione o a cena, è gli annunci assurdi di Passatel a pranzo, le mitiche radiocronache dei mondiali o degli europei (mi ricordo l'anno scorso mentre li ascoltavo in streaming dal computer piangendo dal ridere, mentre i vicini del piano di sotto, quelli noti per "organizzare feste dove far bere le ragazze" rumoreggiavano anticipando la radiocronaca che ascoltavo io, perché seguivano le partite in diretta tv); leggere in una mail apparentemente innocua "sì, mi piace il tuo racconto, vorrei leggerlo a Sonica" (per la rubrica Storia di una Canzone) sarebbe stata una soddisfazione incredibile anche se non fossi l'egocentrica megalomane che sono; sentire lette le mie parole (ripeto, benissimo, comprese le tre g di gggiovani), parole che alla fine non sono tanto diverse da quelle che si ammonticchiano qui fra un disegno e una citazione, me le ha fatte sentire più vere, più possibili, meno imbarazzanti nonostante tutta la retorica e la fuffa e l'aria fritta che sono tanto brava a condire; il supporto via sms, whatsapp e Facebook dei miei amici ha reso solo il tutto più divertente (comunque sì, ero nervosa come prima di un esame o quasi mentre aspettavo la telefonata!).

(Non potevo non parlare della mia Lausanne, e forse era tutto già nato un po' qui e sicuramente qui. E una volta pensata alla canzone, le parole non potevano che venire fuori così, una dopo l'altra, proprio in quell'ordine lì) (e diciamo che è pure andata bene, perché il mio anno di Erasmus è stato pure l'anno di Ai Se Eu Te Pego)


We’re young è stata un po’ la mia colonna sonora personale del secondo semestre di Erasmus. Non era tanto questione di sentirla o ascoltarla spesso. Piuttosto (e mi rendo conto che sto per dire qualcosa di assurdo e imbarazzante), mi sembrava che risuonasse in ogni singolo passo che facevo la sera mentre tornavo a casa. Nell’aria calda di maggio, nel profumo del biancospino, nelle chiacchiere ai tavolini del bar dell’università, o seduti su una scalinata del centro a bere birra e ridere dei rispettivi accenti.

Non so come mai proprio questa canzone sia diventata quasi un simbolo di quegli ultimi mesi in una città straniera che era diventata la mia. Ma nei primi sette secondi, un’intro brevissima di sola batteria, io risento l’attesa piena di aspettative che si respira solo quando si vive in un posto che è ancora nuovo, ancora da scoprire, ancora da esplorare, quando ogni giorno può regalarti una sorpresa, e un incontro casuale diventare amicizia. Nella voce chiara e pulita che canta le prime parole, rivivo la sensazione assordante della consapevolezza di assoluta libertà (e nel racconto di una storia d’amore che non è andata a finir bene, riascolto, come tutti, insuccessi e occasioni sprecate). Nel ritornello enfatico cantato a squarciagola in coro, come un inno, l’unica cosa a cui penso è l’esaltazione di quando ci si rende conto che tutto è possibile, che ogni istante offre possibilità che solo tu sei in grado di cogliere (e allora perché non cantare, perché non ridere forte, ballare e avere il coraggio di buttarsi, di provare quella sensazione di paura e adrenalina di quando ti tuffi dal trampolino più alto?)

Questa stupida, sciocca canzone (costruita di proposito per risultare coinvolgente, favorire l’immedesimazione, essere amata dai gggiovani) è come uno di quei dolcetti nemmeno tanto buoni che sono stati resi celebri da Proust. Mi basta ascoltarla per caso, inaspettatamente, e rivedo la me che si prepara a uscire, nel mio studiò dalla tenda blu lasciata da un precedente proprietario. Mi ricordo la fine dei corsi, una serata di giugno, farsi belle e andare a ballare con due amiche, anche se è mercoledì, anche se non vado mai a ballare, perché non lo so fare, perché mi sento ridicola, perché non è da me. È come se fossi tornata a casa a piedi solo la notte scorsa, stanca ma felice, mentre il cielo si fa sempre più chiaro e i primi lavoratori mattinieri sono già in macchina a guardare con un sentimento misto di disprezzo e invidia quelle due ragazze, sicuramente studentesse, sicuramente sfaticate, sicuramente straniere, che se la prendono comoda a rientrare, godendosi il primo giorno di libertà dalle lezioni, respirando a pieni polmoni aria di libertà (un misto di mattinata di giugno, pane fresco e gas di scarico) e chiacchierando delle aspettative sul futuro, di progetti e aspirazioni, sempre sul punto di essere infrante eppure miracolosamente ancora integre.

Perché forse, a volte, abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci ricordi che siamo giovani, e che possiamo bruciare il mondo (che poi lo diceva anche Cecco Angiolieri, non è certo qualcosa di originale. Ma non per questo è meno bello). Anche se non abbiamo più sedici anni, anche se siamo (quasi) adulti e (quasi) laureati e (quasi) responsabili. C’è sempre una piccola parte di noi che si sente totalmente irresponsabile e sciocca, che si prende cotte-lampo di cui si dimentica dopo due ore, e che coltiva progetti al di fuori della realtà. Ed è a questa piccola parte anarchica che dobbiamo le nostre idee geniali, i momenti di benedetta leggerezza, e gli aneddoti più belli da raccontare.



Aggiornamento
Siamo al 2 Aprile, e il blog di Sonica è finalmente aggiornato! Qui trovate l'audio con la splendida lettura del conduttore!


lunedì 18 marzo 2013

Perplessità e fastidio (e soddisfazioni ed esaltazioni)

Fra cinque giorni si sposa una mia amica del liceo. Eravamo piuttosto unite ai tempi, e anche se ormai non la vedo (né sento) da almeno un paio d'anni, mi è comunque arrivato l'invito per il dopo matrimonio. Su Facebook. Una settimana fa. Quindi ho due opzioni davanti a me: andare (convincendo le mie amiche poco propense) ed esordire con un oh ma ciao che mi racconti di bello? Beh ti sei sposata vedo, congratulazioni... e poi?, oppure non andare, facendo un po' la cafona ma salvandomi il sabato sera. (Che poi, ci sono due cose belle delle feste di matrimonio: l'open bar - o nell'alternativa, mangiebevi a volontà - e i vestiti. E tu, che sei la prima a sposarsi, che dai il via a un decennio di sofferenze e cerimonie e lanci del bouquet e abiti da sposa noiosi e tacchi alti e tartine e marce nuziali e chiesaocomune? e partecipazioni e bomboniere e liste nozze, TU organizzi un after party in un circolo arci. Ingresso solo con tessera, e bevande a prezzo politico. Quindi, niente vestiti fighi, e niente open bar) (come ci si veste per un matrimonio del genere?)

Pensiamo alle cose belle. La tesi consegnata, la voglia di vacanze, le infinite (o nulle) possibilità. Venerdì andare a Torino a vedere gli i.i. e Morgane, un pezzo di Erasmus in terra italiana (e prendere tanto, tantissimo freddo). E poi una bella mail ricevuta, e un bel libro da leggere in pace, e reindossare il costume di Meera, e l'Oscura Torta alla Guinness finalmente sperimentata (e mangiata).

Epperò questo è anche un post di fastidio. Non sono mai stata quella che attira le attenzioni dei ragazzi, quella per cui un tipo sconosciuto attraversa la sala o offre da bere o porta borse pesanti, né mi posso immedesimare con Rossella O'Hara che flirtava a decine alla volta, e grazie a dio, perché risulterei estremamente incapace. Non conosco l'infinita serie di mossette, di no che vogliono dire sì, di sorrisini allusivi che però non si spingono mai troppo in là. Le invidio moltissimo, queste ragazze che sanno sempre cosa dire e cosa fare, e che comunque vada risultano sempre adorabili. E nel contempo non capisco perché TU, amica mia che ci conosciamo dalla prima elementare che che hai tanti difetti che non mi impediscono di volerti bene, debba giocare così con un poveraccio che non ha altra colpa se non provarci con te. Non capisco il perché della tempesta di messaggini adolescenziali, di emoticon che fanno l'occhiolino, di risatine, di finte lamentele sulla falsariga del tumitrascuri, del sìvorreiuscireconteperòsaièunmomentodifficile, a meno che non si rientri nell'odiosa categoria del "farla annusare ma non darla", che fino a questo momento pensavo fosse mitologica o quasi.

In tutto questo, domani ho il mio Primo Vero Colloquio (fuffa) per uno stage (fuffa), quindi a sto punto chissene delle pare adolescenziali altrui, e anche di come vestirsi per un matrimonio all'arci, ho cose più serie a cui pensare (davvero?!).

venerdì 1 marzo 2013

Septimana horribilis

Sì, è stata una settimana orribile (e siamo a venerdì, per dire, c'è persino il tempo per far peggiorare le cose).

Lunedì, secondo giorno di elezioni, gli italiani vanno ai seggi e per una sorta di arcano maleficio tantissimi, troppi, continuano a votare PDL e Lega.

E sì che nonostante i cattivi auspici la domenica era cominciata bene, era una bella giornata, nevicava, Michele Serra scriveva un'Amaca piena di buon umore:


Amici mi telefonano in fibrillazione, altri angosciati, "se vince il Bugiardo io questa volta espatrio davvero", "se vince il Matto va a catafascio il paese", "se vince Bersani tanto poi non può governare", "su due elettori uno è un imbecille certificato", "la gente vota col portafogli o con la pancia, mai col cervello", "la zia di mia moglie è una nazista", e tutto il repertorio, ragionevole ma lugubre, sulla democrazia ammalata.
Io invece, per motivi certamente irragionevoli, ma immutati nei decenni, vado a votare sempre di buon umore. Ho perso quasi tutte le elezioni dal 1974 a oggi, e dunque dovrei avere maturato, a proposito del voto, una radicata ostilità. Ma ci ricasco ogni volta, e ci ricasco volentieri, vado al seggio carico di rispetto e di fiducia, se incontro la zia nazista del mio amico la saluto e non mi sembra neanche così nazista, forse è il mio amico che è paranoico. Dove voto io sta nevicando forte, e la neve, a patto che uno non dia retta ai telegiornali che ne parlano come di una piaga biblica, mi mette di buon umore. Andrò a votare con il berretto di lana.
Credo che abbia ragione quel mio amico: "Su due elettori, uno è un imbecille", e quello imbecille sono io.

Lunedì sera si è poi scoperto che gli imbecilli, per una volta, non eravamo noi che "che bello andiamo a votare, anche se non mi hanno chiamata a scrutinare sono contenta lo stesso, sembra sempre un po' una festa", ma erano proprio quegli altri, che però chissà chi sono.

Martedì e mercoledì infatti i pidiellini risultano ancora sconosciuti (ma devono essere qui, da qualche parte... insomma, l'han pur votato, no? A momenti addirittura vincevano!), mentre i grillini fan la voce grossa (qualcuno mi spieghi perché "Movimento a 5 stelle", e vi prego ditemi che non c'entra con la categoria degli alberghi, vi prego), alcuni si improvvisano poeti anche se non dovrebbero (un mio contatto Facebook già lunedì sera scriveva "E se stasera alzando gli occhi... vedeste le stelle?"), altri son giustamente esaltati, tutti sembrano ignorare quanto risulti inquietante il loro guru. La cosa divertente è che il PD effettivamente vince, anche se di pochissimo, e guadagna anzi una maggioranza più netta grazie alla legge "porcata" (secondo la definizione del suo ideatore), fatta dallo schieramento opposto per auto-favorirsi. La cosa tragica è che in Lombardia vince MARONI, l'incarnazione del brutto e del marcio della politica, contro quella che doveva essere la sua nemesi, il pulito, corretto, civile Ambrosoli.

Giovedì, trovo un capello bianco. Proprio bianco, non biondino o molto fine. Bianco, grosso, crespo. Sono già vecchia prima ancora di essere stata giovane. Questo d'altra parte è l'anno dei 25, l'anno in cui si dovrebbe cominciare a mettere la crema antirughe, incontrare l'uomo della propria vita, mettere la testa a posto, sistemarsi, responsabilizzarsi... Io mi sento meno responsabile che mai, ho voglia di tutto men che di sistemarmi, non penso incontrerò l'uomo della mia vita, e sarei comunque troppo giovane (dentro, a questo punto) per pensare a matrimoniconvivenze (come invece cominciano a fare i miei coetanei, ma che gli prende?!), e men che meno a figliare. Non ho comprato la crema antirughe e ignorerò il capello bianco (e se ce ne fossero altri?!), mia madre in fondo non sembra così vecchia  e non si è mai curata... (ma si è fatta grasse risate quando le ho detto della mia scoperta e poi per la prima volta nella vita mi ha guardato con compassione, sarà l'università che fa invecchiare precocemente).

Dunque, per tirare le somme: invecchiata prima di sembrare adulta, prigioniera di un paese da operetta (io ho anche firmato qui, pur sapendo che probabilmente non servirà a nulla), e devo pure riscrivere le conclusioni della tesi, mentre intorno a me la gente chiede "...ma dato che sei ANCORA single, vuoi che ti presenti qualcuno?" "...cosa vuol dire, che il tuo ragazzo ideale deve saper fare buon uso della punteggiatura?" "guarda che sei troppo esigente. Non ti stupire se finisci zitella".

Angoscia.